La volgarizzazione del marchio avviene quando un nome diventa di uso comune, utilizzato per definire una categoria di prodotti e non una specifica azienda. Vediamo quali sono le conseguenze e come è possibile evitare una situazione di questo tipo.

Affinché un marchio possa essere validamente registrato, il legislatore prevede che questo debba essere in possesso di quello che viene chiamato “carattere distintivo”. Elemento essenziale è quindi che il marchio sia idoneo a consentire al pubblico dei consumatori di distinguere i prodotti o i servizi di un imprenditore da quelli, uguali o affini, offerti da un imprenditore concorrente.

Quando e come avviene la volgarizzazione di un marchio?

Partendo da questa premessa, la volgarizzazione del marchio non è altro che quel fenomeno che si verifica quando quest’ultimo, perdendo l’originaria capacità definitoria di un prodotto come proveniente da uno specifico imprenditore, diventa esso stesso la denominazione comune per la categoria di prodotti di cui fa parte. Il carattere distintivo di un marchio, dipendendo dalla percezione che ne ha il c.d. pubblico di riferimento, ha infatti carattere dinamico e può variare non solo con il trascorrere del tempo ma anche al variare delle conoscenze che si verifica a livello sociale (il linguaggio comune può essere ad esempio arricchito sia da neologismi che da vocaboli stranieri che diventano di uso quotidiano).

Tra i tanti, esempi di questo processo sono quelli dello Scotch e del Thermos: il primo, inventato nel 1925 e messo in commercio nel 1930, è passato dal designare un prodotto ben definito della multinazionale statunitense 3M ad indicare un qualsiasi tipo di nastro adesivo; il secondo, se inizialmente era stato registrato come marchio dalla American Thermos Bottle Company, oggi designa invece semplicemente un contenitore alimentare dalle alte capacità termoisolanti (già nel 1962 le corti statunitensi riconobbero, rifacendosi all’ulteriore caso del cellophane, come il termine thermos fosse ormai di uso generico e, che non venendo perciò utilizzato dai concorrenti con scopi prettamente confusori, avesse di fatto perso la capacità distintiva tipica del marchio).

Il fenomeno della volgarizzazione è ovviamente di estrema pericolosità non solo sotto il profilo giuridico, dato che rappresenta una delle principali cause di decadenza del marchio e conseguentemente dei diritti di esclusiva che l’imprenditore ha su di esso, ma soprattutto sotto quello economico-commerciale. Il fatto che il consumatore riconosca in un segno distintivo non più un prodotto come derivante dal suo titolare, ma un termine d’uso abituale e generalizzato per un intero genus merceologico, può infatti portare sia ad una decrescita del volume d’affari che, sul piano della tutela del consumatore, a possibili contraffazioni.

Si può evitare la volgarizzazione del marchio?

Il fenomeno linguistico sopracitato è elemento necessario ma sicuramente non esclusivo affinché la decadenza conseguente alla volgarizzazione del marchio si verifichi. È stato infatti ritenuto che perché questa possa avvenire la generalizzazione di cui abbiamo parlato sia provocata anche dall’attività o dall’inattività del titolare del marchio stesso. Ciò è confermato dall’art. 13 del Codice della proprietà industriale, che al comma 4 prevede proprio che:

Il marchio decade se, per il fatto dell’attività o dell’inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o servizio o abbia comunque perduto la sua capacità distintiva.

Particolarità degna di nota è inoltre che l’art. 13 c.p.i., parlando di capacità distintiva in generale, consenta di ricomprendere nella fattispecie di decadenza non solo i marchi denominativi ma anche quelli di forma (a tal proposito basti pensare alla forma della moka, che, se originariamente era distintiva del marchio Bialetti, standardizzandosi, ha progressivamente perso la capacità di collegamento tra prodotto e specifica fonte imprenditoriale).

Analogamente, anche a livello comunitario, all’art. 58 del Regolamento 2017/1001 sul marchio dell’Unione Europea si può leggere che:

Il titolare del marchio UE è dichiarato decaduto dai suoi diritti […] se, per l’attività o l’inattività del suo titolare, il marchio è divenuto denominazione abituale nel commercio di un prodotto o di un servizio per il quale è registrato.

Come possiamo desumere da questi articoli la volgarizzazione non è quindi un fenomeno incontrastabile. Affinché non si verifichi il titolare del marchio deve però sia prestare attenzione all’utilizzo che fa dello stesso (dev’essere lui, in primis, a non utilizzare, ad esempio a fini pubblicitari, il marchio come denominazione generica del prodotto) che monitorare costantemente la situazione per poter eventualmente reagire, ove necessario, anche sul piano giudiziale. Fondamentale per evitare la decadenza per volgarizzazione, allorquando un segno accenni ad entrare a far parte del linguaggio comune come denominazione generica di un prodotto, è quindi che l’imprenditore titolare si attivi perché il marchio sia sempre riconoscibile come tale.

Prima cosa che può essere fatta, in tal senso, è accompagnare il marchio con la R di “marchio registrato” (®). Ciò deve avvenire sia in occasione di comunicazioni commerciali e campagne pubblicitarie che qualora sia un terzo a menzionare il marchio nella sua accezione generalizzata. Questa seconda ipotesi si può in particolare verificare qualora il marchio venga inserito in vocabolari e dizionari ed è proprio a questa che si riferisce l’art. 12 del Regolamento sul marchio dell’Unione Europea quando dispone che:

Se la riproduzione di un marchio UE in un dizionario, in un’enciclopedia o in un’analoga opera di consultazione dà l’impressione che esso costituisca il nome generico dei prodotti o dei servizi per i quali è registrato il marchio, su richiesta del titolare del marchio UE l’editore dell’opera provvede affinché al più tardi nell’edizione successiva dell’opera la riproduzione del marchio sia corredata dell’indicazione che si tratta di un marchio registrato.

Tale disposizione è stata recepita anche dall’ordinamento interno con il D. lgs. n. 15 del 20/02/2019 e confluita nel c.p.i. all’art. 20, comma 3-bis.

Seconda strategia che può essere adottata dall’imprenditore in ottica anti-volgarizzazione, soprattutto nel caso della commercializzazione di nuovi prodotti, è quella di accompagnare il marchio ad un nome generico che i consumatori possano utilizzare alternativamente al primo.

Difendersi dalla volgarizzazione del marchio: attività e inattività

Come è possibile evincere dall’art. 13 c.p.i., la decadenza di un marchio per volgarizzazione dipende in buona parte anche dal comportamento che viene tenuto dal titolare. Se l’inattività dell’imprenditore è però più facilmente riconducibile alla mancata adozione delle prassi sopraindicate, più complicato è stabilire quando la generalizzazione sia riconducibile all’attività dello stesso. Per la giurisprudenza, per quanto ciò raramente si verifichi, questo avviene in linea di massima quando l’imprenditore decida di usare il suo stesso marchio come denominazione generica del prodotto che commercializza (pratica che per quanto fruttuosa dal punto di vista del marketing, espone indubbiamente al rischio volgarizzazione).

Emblematico, per meglio poter comprendere le ipotesi di negligenza imprenditoriale, è il caso Kornspitz, marchio con cui la società austriaca Backaldrin commercializza un preparato destinato alla produzione di una particolare forma di pane. Principale problematica della vicenda è costituita dal fatto che la società permettesse a fornai e distributori di vendere il prodotto finale avvalendosi del marchio, con la conseguenza che il pubblico iniziò a percepire quest’ultimo non come il nome registrato del preparato ma come denominazione generica del prodotto finito.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, al cui esame il caso venne sottoposto in via pregiudiziale dall’Oberster Patent – und Markensenat austriaco, risolse proprio la questione relativa all’inattività specificando che “Sussiste un’inattività […] qualora il titolare del marchio non adotti le misure che possono essergli ragionevolmente richieste per tutelare il marchio dalla trasformazione nella designazione generica”. Sottolineando la funzione di origine del marchio, rilevò inoltre, in relazione al caso di specie, come “un marchio [diventa] la generica denominazione del prodotto per il quale è stato registrato nel caso in cui esso venga percepito come tale dai consumatori finali, sebbene i commercianti, che fabbricano essi stessi il prodotto in questione a partire da un prodotto di base proveniente dal titolare del marchio e lo vendono usando il marchio con l’autorizzazione del titolare, siano consapevoli del fatto che si tratta di un’indicazione di origine e non lo comunichino, di norma, ai consumatori finali”.

Per quanto riguarda infine il versante dei comportamenti virtuosi, diversi sono i casi di aziende che si sono attivate in tutela di un loro marchio: tra tutti spicca sicuramente l’esempio di Ferrero che, già nel corso degli anni ’90, quando il celebre marchio Nutella venne inserito in un dizionario come sinonimo di “crema spalmabile”, ottenne l’inserimento del simbolo ® in modo tale che fosse ben chiaro come il termine indicasse non un nome comune ma un marchio registrato (similmente si mossero anche Jacuzzi e Dow Italia in protezione, rispettivamente, dell’omonima linea di vasche idromassaggio e del marchio Domopak).