La Stampa 3D rappresenta una delle più rivoluzionarie tecnologie nell’economia digitale. Le domande di brevetto europeo per invenzioni riconducibili alla stampa 3D sono cresciute, negli ultimi cinque anni di un tasso di crescita annuale medio del 36 %, più di dieci volte rispetto alla media degli altri settori della tecnica. Tuttavia, la diffusione globale della tecnologia di stampa 3D, dovuta anche a una riduzione dei costi delle stampanti 3D e dei materiali di stampa, rende anche necessaria l’esigenza di una regolamentazione volta a tutelare i diritti di proprietà intellettuale di terzi nei confronti di soggetti che utilizzino in modo illecito tale tecnologia.

La tecnologia

Nell’espressione “stampa tridimensionale”, o “stampa 3D”, sono ricomprese tutte quelle tecnologie, dispositivi e procedimenti per la realizzazione di oggetti tridimensionali mediante l’unione di materiali stratificati (la cosiddetta “produzione additiva”, dall’inglese “Additive Manufacturing”), partendo da modelli grafici 3D in formato digitale.

I primi studi su tale tecnologia risalgono agli anni ’50 del ‘900, con i primi tentativi di realizzare oggetti solidi tridimensionali utilizzando resina fotopolimerica e la tecnologia laser. Nel 1986, con la concessione del brevetto “Apparatus for Production of Three-Dimensional Objects by Stereolithography”, nasce la c.d. tecnica stereolitografica: un processo attraverso cui era possibile creare oggetti solidi mediante deposizione di successivi strati induriti di polimero liquido fotosensibile colpito da luce ultravioletta. Quindi, nel 1988, la 3D Systems, titolare della privativa, e il suo inventore Charles Hull, progettano le prime stampanti 3D commerciali.

Negli anni successivi viene sviluppata la c.d. “modellazione a deposizione fusa” (Fused deposition modeling o FDM), una nuova tecnologia basata sul principio additivo, in base al quale degli strati di materiale plastico o metallico vengono srotolati da una bobina e rilasciati tramite un ugello di estrusione in grado di gestire il flusso. Un software CAM (Computer Aided Manufacturing) controlla i movimenti dell’ugello e la deposizione del materiale.

Nel 2009, con la caduta in pubblico dominio delle suddette tecnologie, numerose aziende iniziarono a produrre vari modelli di stampanti 3D, dai costi molto accessibili, per l’utilizzo nei più diversi settori dell’industria: dalla gioielleria, alla calzoleria, alla progettazione industriale, all’architettura, all’industria automobilistica e aerospaziale, fino alle recenti evoluzioni e applicazioni in ambito medico e dentistico.

Limitazioni e criticità

Proprio la possibilità di tale tecnologia di essere attuata a basso costo e con mezzi relativamente semplici e la sua diffusione globale, anche in ambito privato, rischia di accrescere esponenzialmente le opportunità di imitazione e di condotte illecite, con il serio pericolo di andare a ledere diritti di esclusiva altrui e ricadere in azioni di contraffazione da parte di soggetti difficilmente identificabili e perseguibili. Inoltre, per gli stessi motivi, è inevitabile una perdita del valore aggiunto scaturente dall’opera artigianale.

Per questo motivo, risulta quanto mai utile e necessario garantire ai proprietari di diritti IP, in particolare brevettuali, un’adeguata tutela giuridica.

La contraffazione del brevetto nella stampa 3D e la tutela brevettuale

Per stabilire eventuali azioni di contraffazione è necessario distinguere tre differenti tipologie di soggetti: a) colui che per mezzo della stampa 3D realizza il prodotto; b) colui che crea e/o mette a disposizione di terzi il file di progettazione digitale (CAD) atto a essere implementato dalla stampante; e c) colui che gestisce la piattaforma di hosting dalla quale il file viene trasferito.

Nel primo caso, la dottrina e la giurisprudenza sono concordi sulla qualifica di illecito di contraffazione nel caso venga riprodotto un trovato oggetto di brevetto, ad esclusione, ai sensi dell’art. 68 c.p.i., di realizzazioni destinate a uso privato e personale escludendo, quindi, ogni finalità commerciale.

Nel secondo caso, che contempla, generalmente, la prima condotta illecita in ordine cronologico, si ricade, spesso, nella contraffazione indiretta o “contributory infringement”, disciplinata dall’art. 66, 2-bis c.p.i., secondo cui il titolare del brevetto ha “anche il diritto esclusivo di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di fornire o di offrire di fornire a soggetti diversi dagli aventi diritto all’utilizzazione dell’invenzione brevettata i mezzi relativi a un elemento indispensabile di tale invenzione e necessari per la sua attuazione nel territorio di uno Stato in cui la medesima sia protetta, qualora il terzo abbia conoscenza dell’idoneità e della destinazione di detti mezzi ad attuare l’invenzione o sia in grado di averla con l’ordinaria diligenza”.

Pertanto, al fine di escludere la propria responsabilità nell’azione illecita di contraffazione, colui che fornisce una componente di un trovato, dovrà dimostrare che la fornitura da parte sua della stessa non era destinata alla realizzazione di un prodotto contraffatto da parte di chi l’ha ricevuta; detta dimostrazione potendosi attuare, ad esempio, per mezzo di specifiche clausole inserite in un contratto di fornitura.

Nell’ultimo caso, il soggetto che gestisce la piattaforma sulla quale il file CAD viene scambiato può essere equiparato a un service provider, la cui attività consiste nell’allocare su un sito web prodotti informatici accessibili a vari utenti. Ai sensi dell’art. 14 della Direttiva CE 2000/31 (Direttiva e-commerce), tali soggetti, nel caso ricoprano una posizione di controllo dei dati che vengono memorizzati sulla piattaforma, sono responsabili per l’illecita contraffazione di un trovato brevettato qualora: siano effettivamente al corrente del fatto che il file CAD sia idoneo a far compiere un atto di contraffazione; oppure, non appena si siano resi conto di tale fatto, non abbiano provveduto immediatamente alla rimozione delle informazioni allocate e alla disabilitazione dell’accesso al sito.

Ostacoli e possibili soluzioni

Per quanto sopra detto, sembrerebbe che qualunque azione di produzione e attuazione di trovati oggetto di tutela brevettuale attraverso le stampanti 3D a fini commerciali debba ritenersi illecita.

Tuttavia, un caso particolare potrebbe verificarsi nel caso della c.d. eccezione a uso sperimentale, o “experimental use exception” prevista, dall’ordinamento brevettuale, nel medesimo art. 68, 1 c.p.i.

In questo caso, al fine di promuovere e incentivare un ulteriore progresso della tecnica, sono ritenuti leciti l’attività di ricerca e gli atti compiuti a titolo sperimentale, volti all’ottenimento di un prodotto, anche se oggetto di brevettazione. Inoltre, a differenza di quanto accade in riferimento all’eccezione per uso personale e/o domestico, di cui si è accennato sopra, non si vieta esplicitamente l’attività di ricerca a fini commerciali, ossia nell’ambito dell’attività d’impresa.

È evidente che ciò non vada inteso come una libertà assoluta da parte dello sperimentatore di produrre e commercializzare il frutto della sua attività di ricerca, il che indebolirebbe irrimediabilmente i diritti di esclusiva del titolare di una privativa brevettuale, tuttavia non sempre risulta facile distinguere tra una sperimentazione c.d. “lecita” sull’invenzione volta a un suo miglioramento e/o superamento; da una sperimentazione non consentita, atta a testare la realizzabilità e l’efficacia di un prodotto, con finalità estranee al progresso tecnico.

Questa discrepanza di trattamento tra le attività a fini personali e le attività a fini sperimentali, tra l’altro, trova giustificazione soltanto nel c.p.i., in contrapposizione, ad esempio, al diritto d’autore, alla luce di quanto disposto dalla L. 633/1941 e dall’art. 5, 3 della direttiva n. 2001/29/CE, per cui l’attività sperimentale è concessa solo “nei limiti di quanto giustificato dallo scopo non commerciale perseguito”.

Accanto ad un adeguamento della legislazione brevettuale alla normativa sul diritto d’autore, che solo parzialmente colmerebbe questo tipo di lacune, è chiara la necessità di trovare differenti e più generali forme di tutela dei diritti dei titolari di privative industriali come, ad esempio, previsto dall’ordinamento statunitense, con il c.d. “Digital Rights Management”. Quest’ultimo prevede sistemi che consentano la stampa dei file CAD soltanto a utenti provvisti di codice di sblocco univoco fornito all’acquisto, oppure che limitino la quantità di volte che quel file può essere stampato.

Altre possibili soluzioni riguardano lo sviluppo di sistemi atti a mantenere i file di stampa in cloud e in grado di far comunicare direttamente il cloud con la singola stampante 3D, la quale verificherà in tempo reale se l’utente sia o meno autorizzato a stampare quel file.

Ancora, assai consigliabile risulta la possibilità di tutelarsi contrattualmente attraverso contratti di vendita (o di fornitura), aventi a oggetto i propri prodotti e/o servizi e clausole volte a limitare la creazione di copie del prodotto non autorizzate.

Conclusioni

Alla luce di quanto sopra esposto, al fine di far fronte alle problematiche derivanti da uno scorretto uso delle tecnologie di stampa 3D, appare evidente la necessità di adottare – a livello comunitario o, meglio, internazionale – una regolamentazione univoca e completa per la tutela dei diritti di proprietà industriale e intellettuale.