Una questione giuridica con enormi riflessi economici che si trascina da tempo è quella relativa all’applicazione della clausola di riparazione, c.d.match-fit, (art.124 CPI) che in via di eccezione consente di riprodurre l’aspetto esteriore di un pezzo di ricambio, identico a quello originario e tutelato come design.

Per comprendere la ratio di questa norma bisogna fare un passo indietro di qualche anno quando, in occasione dell’ultima Direttiva sul design (direttiva 98/71/CE del parlamento europeo e del Consiglio del 13 ottobre 1998), si accese una lite tra case automobilistiche, che pretendevano di avere il monopolio sui pezzi di ricambio, e i ricambisti indipendenti, i quali invece invocavano la libera concorrenza. Non si riuscì in quell’occasione a disciplinare la materia e – in via provvisoria – in attesa dell’emanazione di una normativa ad hoc – mai ad oggi arrivata – s’impose alle case automobilistiche, titolari di diritti di design, di non “aggredire” i ricambisti indipendenti quando la componente dell’auto oggetto di design costituiva pezzo di ricambio necessario per ripristinare l’originario aspetto dell’auto.

Il tutto doveva inoltre rispettare le regole della leale concorrenza ed i ricambisti avrebbero anche dovuto esplicitamente indicare che si trattava di pezzi di ricambio non originali. Così a Bruxelles avevano cercato di trovare un equilibrio tra contrapposti interessi nel rispetto del principio di libera concorrenza.

Questa norma, di ardua interpretazione, è stato oggetto di numerosi contenziosi giudiziari, ad esempio in merito ai cerchi in lega della auto.

Quando i big dell’auto si sono accorti che incominciavano a subire la concorrenza dei liberi ricambisti e perdere quote di mercato, hanno iniziato una sanguinosa battaglia a suon di cautelari, inibitorie e sequestri in sede civile e penale, per veder tutelati i propri diritti di monopolio.

In Italia, infatti, medio – piccole aziende, molto dinamiche, avevano raggiunto un grado di perfezione tale da essere certificate dalle normative internazionali di sicurezza. E nel nostro paese, a differenza di altri, quella clausola esonerativa, di cui alla succitata Direttiva, era stata anche trasposta nella disciplina interna (art. 241 CPI). In Italia, tuttavia, la materia è stata ed è tuttora oggetto di difformi orientamenti della giurisprudenza, soprattutto alla luce dell’art. 21 CPI e del già citato art. 241 CPI, di ardua e non sempre univoca interpretazione.

Dal Tribunale di La Spezia ci giunge un ulteriore recente quadro sulla questione, dai contorni penalistici.

Protagonista ancora una volta la casa tedesca BMW che si era costituita parte civile contro un gruppo di imprenditori del centro-nord, importatori di autoricambi non originali, con l’accusa non solo di aver violato dei diritti di design e marchio registrati, ma anche ipotizzando la pericolosità dei pezzi di ricambio stessi.

A tal proposito il Tribunale di La Spezia, con sentenza n. 1605/16, ribadiva che la materia risulta essere “di ardua interpretazione” e sanciva  che: “fino a che la direttiva 98/71/CE del parlamento europeo e del Consiglio del 13 ottobre 1998, sulla protezione giuridica dei disegni e modelli non sarà modificata su proposta della commissione a norma dell’art 18 della direttiva medesima, i diritti esclusivi sui componenti di un prodotto complesso non possono essere fatti valere per impedire la fabbricazione e la vendita dei componenti stessi e per la riparazione del prodotto complesso, al fine di ripristinare l’aspetto originario”.

Dopo aver escluso l’elemento soggettivo dei reati contestati (art.473, 474, 517 ter e 468 c.p.), “se non altro in ragione di un orientamento interpretativo favorevole alla ipotesi della legittimità del commercio dei prodotti con quelle caratteristiche, svolgendosi secondo le regole della concorrenza professionale”, il Tribunale di La Spezia statuiva che: “si dubita fortemente che si possa addivenire ad una fase dibattimentale di trattazione in cui poter raccogliere elementi di prova, sia della condotta che dell’elemento psicologico, tali da consentire di giungere ad una sentenza di condanna per alcuno degli odierni imputati. Ne deve conseguire il dissequestro e la restituzione all’avente diritto di quanto trattenuto come campione della merce”.

Il Tribunale di La Spezia dichiarava, dunque, il non luogo a procedere nei confronti degli imputati poiché: “i fatti non sussistono in ordine ai reati loro ascritti”.

La sentenza è stata poi confermata in via definitiva in Cassazione.

Decisioni, queste, che hanno fatto e che faranno discutere poiché evidenziano un cambio di direzione da parte della giurisprudenza e in controtendenza rispetto alle più recenti sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia.

In attesa di un intervento legislativo che ancora non è giunto – e che molto si farà attendere – queste sentenze italiane, di merito e di legittimità, sono il chiaro segnale che un equilibrio, anche giurisprudenziale, nella disciplina dei marchi e dei design delle componenti delle autovetture ancora non è stato raggiunto.

Lecito è domandarsi: mai lo sarà?