Una delle caratteristiche principali del marchio è il “carattere distintivo”, ovvero, sotto il profilo giuridico, la capacità di contraddistinguere un prodotto o un servizio come proveniente da una specifica fonte imprenditoriale. Peculiarità di questa caratteristica, che svolge anche una funzione di limite nei confronti di quegli attori di mercato che vogliano impadronirsi di segni generici o comuni, impedendone così l’utilizzo da parte dei concorrenti, è indubbiamente quella di poter essere più o meno marcata. Ciò produce inevitabili ricadute anche sul piano della tutela del marchio.

Il marchio descrittivo  

Il Codice della Proprietà Industriale prevede in primis, all’art. 13, che non possano costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni “divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio” e quelli “costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono”, ovvero i marchi indicativi del nome comune di un prodotto o di una categoria merceologica e quelli meramente descrittivi delle caratteristiche o delle funzioni essenziali del prodotto che vanno a contraddistinguere.

Quest’ultimo è in particolare il caso dei marchi che, non solo dal punto di vista semantico o grafico, ma anche da quello concettuale, riescono a indirizzare la percezione del consumatore direttamente e intrinsecamente alla natura dei prodotti o dei servizi che rappresentano, e quindi così ad un intero genus (e.g. sono stati dichiarati nulli i segni jeans, per i pantaloni, e quelli video, per i prodotti destinati alla cura degli occhi). La ratio del divieto di cui all’art. 13 c.p.i., conseguentemente, come più volte sottolineato anche dalla Corte di Cassazione, deriva perciò proprio dalla “preoccupazione che si crei un diritto di esclusiva sulle parole, figure o segni che nel linguaggio comune sono collegabili al tipo merceologico e devono rimanere pertanto patrimonio comune, onde evitare che l’esclusiva sul segno si trasformi in monopolio di fabbricazione” (inter alia, Cass. civ. Sez. I, n. 1929/1998).

Anche in sede comunitaria, analogamente, il Regolamento (UE) 2017/1001 sul marchio dell’Unione Europea prevede all’art. 7 che non possano costituire oggetto di registrazione “i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire per designare la specie, la  qualità, la  quantità, la  destinazione, il  valore, la  provenienza geografica, ovvero l’epoca di  fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio […]” e quelli “composti esclusivamente da segni o indicazioni che siano divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o nelle consuetudini leali e costanti del commercio”.

Marchi deboli e marchi forti

Essendo comunque permessa, sotto questi profili, la registrazione dei segni che, per quanto descrittivi, conservano un minimum di distintività (principio desumibile dal fatto che sia il legislatore italiano che quello europeo conferiscano un certo rilievo all’avverbio “esclusivamente”), ciò ha portato, soprattutto attraverso l’elaborazione giurisprudenziale, alla nascita della distinzione tra i c.d. marchi forti e i c.d. marchi deboli.

I primi sono quelli che, non coincidendo con la denominazione generica di un prodotto e non consistendo in indicazioni descrittive dello stesso, sono dotati di maggior capacità distintiva. Questa è solitamente dovuta al fatto che i marchi forti facciano utilizzo di elementi di fantasia o parole di uso comune non però concettualmente collegate al prodotto o al servizio che contraddistinguono (esempio lampante ne è il marchio “Apple”: la mela può costituire infatti un marchio forte ove venga utilizzata in relazione al mondo tecnologico-informatico, ma sarebbe al contrario un marchio debole se identificasse prodotti o servizi in campo ortofrutticolo).

I secondi sono al contrario quei marchi che, “pur non identificandosi con la denominazione generica [lasciano] tuttavia agevolmente trasparire quale prodotto [contraddistinguono]” (Cass. Civ., Sez. I, sent. n. 7768/1990). Questi vengono quindi detti deboli perché oggetto di esclusiva è solamente quella parte del marchio che si differenzia dalla denominazione generica, rimanendo invece logicamente utilizzabile anche da parte altrui la parte rimanente (Cass. Civ., supra). Esempi di marchi di questo tipo sono “Melinda”, questa volta proprio per la produzione di mele, e Poltronesofà per la produzione e vendita di divani e poltrone.

La giurisprudenza, in particolare quella di legittimità, ha inoltre progressivamente rilevato come la distinzione tra i c.d. segni forti e quelli deboli, pur non essendo questa legislativamente disposta, incida sul grado di tutela accordato ai diversi marchi. La debolezza di un marchio sta infatti anche nel fatto che il relativo titolare non possa opporsi a che un altro soggetto usi un marchio anch’esso poco distante dalla denominazione generica se quest’ultimo, pur magari identico nella parte non distintiva, si differenzia per la parte monopolizzabile del marchio. La tutela dei marchi forti è invece caratterizzata da maggior incisività in quanto sono illegittime proprio le variazioni, anche originali, che lasciano comunque intatto il nucleo ideologico riassuntivo dell’ “attitudine individualizzante” del segno registrato (cfr. Cass. Civ., Sez. I, sent. 5924/1996) (il che non significa comunque che sia sufficiente la sola parziale coincidenza di un altro marchio affinché una contraffazione venga rilevata).

Secondary meaning

È necessario tuttavia sottolineare come un marchio inizialmente privo di carattere distintivo possa comunque, attraverso la progressiva notorietà ottenuta nel tempo presso il pubblico di riferimento, godere di un effetto c.d. riabilitativo e trasformarsi in un segno distintivo o addirittura forte. Questo fenomeno, detto del “secondary meaning” e disciplinato nell’ordinamento italiano dall’art. 13, comma 2 e 3 c.p.i., si verifica in particolare quando un marchio, grazie all’uso che ne viene fatto, ottiene un significato, ulteriore rispetto a quello originario, che ne determina la distintività e ne garantisce così la tutela. Per meglio individuare la portata di tale istituto, si pensi ad esempio al marchio “Il Giornale”, che pur avendo un significato originariamente generico, descrittivo e d’uso comune, ha sviluppato un’intrinseca fama che ne permette l’individuazione e la distinzione, all’interno della categoria di riferimento, da parte del pubblico.

Lo stesso può ovviamente avvenire in relazione ad un marchio debole che acquisisca successiva popolarità. A tal proposito, è stata la stessa Corte di Cassazione a sottolineare come “tale fenomeno, elaborato ai fini della cosiddetta riabilitazione o convalidazione del segno originariamente privo di capacità distintiva, giacché mancante di originalità ovvero generico o descrittivo e che, tuttavia, finisce con il riceverla dall’uso che ne viene fatto dal mercato, [sia] stato utilizzato per cogliere ogni evoluzione della capacità distintiva, cioè anche come rafforzamento della capacità distintiva del marchio in origine debole – ma non nullo – che divenga successivamente forte attraverso la diffusione, la propaganda e la pubblicità” (v. inter alia Cass. Civ., Sez. I, sent. 1861/2015).

Sotto un profilo più pragmatico, va infine rilevato come l’accertamento circa l’assunzione della capacità distintiva, secondo la giurisprudenza sia italiana che europea, debba avvenire attraverso una valutazione caso per caso e come questa possa prendere in esame diversi criteri ulteriori e contingenti alla natura del marchio tra cui, in particolare, la quota di mercato detenuta dallo stesso, l’entità degli investimenti effettuati dall’imprenditore per promuoverlo, l’estensione geografica, la durata dell’uso ed eventualmente anche le dichiarazioni delle Camere di Commercio o di altre associazioni professionali (v. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, C-353/03).